La CGIL ha raccolto 3,3 milioni di firme sui tre quesiti referendari presentati alla Corte di Cassazione per far abrogare gli articoli più odiosi del Jobs Act e delle controriforme sul lavoro di questi anni. Si tratta dell’uso improprio dei voucher, del ripristino della giusta causa per i licenziamenti e della responsabilità in solido dell’ente appaltante rispetto alla ditta sub-appaltante che esegue i lavori. In aggiunta alle tre proposte di referendum, la CGIL ha predisposto una proposta di legge di iniziativa popolare di 97 articoli denominata Carta Universale dei Diritti del Lavoro, su cui prosegue la raccolta delle adesioni su tutto il territorio nazionale. La mobilitazione del sindacato pone una questione forte alla rappresentanza politica e sollecita una risposta chiara ai partiti e ai movimenti, per tradurre le giuste richieste del mondo del lavoro in norme codificate. Su questo aspetto si registra un pauroso vuoto di rappresentanza su cui è indispensabile aprire una riflessione politica meno banale di chi confonde la tutela dei diritti dei lavoratori con l’obbligo di far parte della maggioranza di governo. Il PCI uscì dal Governo De Gasperi su richiesta degli americani a luglio del 1947 ed è tornato ad esprimere Ministri nel Governo Prodi del 1996, ma la sua permanenza all’opposizione non gli impedì di tradurre in Parlamento le richieste provenienti dalle lotte sociali e del lavoro. Oggi per la prima volta nella storia della Repubblica non c’è un collegamento tra rappresentanza sindacale e rappresentanza politica, salvo alcune frange minoritarie della sinistra presenti in Parlamento. Infatti il centrodestra esprime posizioni conservatrici ed antisindacali, il Movimento 5 Stelle ritiene i sindacati come parte essenziale del sistema istituzionale da scardinare, ed il PD ha mutato radicalmente la propria linea tanto da adottare il Jobs Act in perfetta continuità con l’impostazione storica di Forza Italia. Questo vuoto di rappresentanza pone un problema su chi rappresenta chi, all’interno delle istituzioni e su cosa significhi oggi autodefinirsi di sinistra se milioni di lavoratori firmano contro le leggi proposte ed approvate dal PD in Parlamento. Non è vero che gli interessi del lavoro sono interscambiabili con quelli del capitale, e mi ha fatto impressione vedere ex-dirigenti post-comunisti festeggiare il fiscal day anche in Molise. Quella filosofia berlusconiana va bene per gli evasori fiscali che denunciano redditi annui inferiori a quelli di un operaio FIAT e però hanno due SUV e tre case al mare e in montagna. Altra cosa è che il PD si collochi su una posizione politica dove non pone al primo posto l’obbligo di pagare le imposte e di contrastare l’evasione fiscale. Come si finanzia il Welfare-State se chi ha i soldi non paga le tasse ? I tagli agli ospedali, alle scuole e ai servizi pubblici locali, non hanno a che fare con il calo degli introiti fiscali del Governo ? Non si può avere una sanità pubblica di qualità se ci si mette col banchetto a festeggiare il fiscal day. La questione del lavoro e della sua rappresentanza non è un tema come un altro, e non saranno i populismi a offrire una risposta al bisogno di giustizia sociale e di uguaglianza. Sarà difficile superare gli ostacoli che si frappongono lungo un percorso di riorganizzazione politica dei lavoratori italiani ma se non si ricostruisce un legame tra mondo del lavoro e rappresentanza politica, si rischia un progressivo smantellamento delle conquiste sociali dell’ultimo secolo. Una ad una cadranno le tutele sindacali e le norme di legge sulla protezione sociale che in termini tecnici venivano definite come il salario differito e che poggiavano su una pubblica amministrazione efficiente, e su servizi pubblici di qualità, onde evitare che venissero mercificati i diritti alle cure mediche, all’istruzione, alla previdenza o ai trasporti.
Campobasso, 2 luglio 2016
Michele Petraroia