Il Referendum sulla Costituzione del 4 dicembre ha fermato con 20 milioni di NO, la deriva plebiscitaria dell’ultimo ventennio con cui sono state svuotate le Assemblee Legislative a vantaggio degli Organi Esecutivi con un eccesso di accentramento di poteri formali e sostanziali, in capo a figure monocratiche quali i Sindaci, i Presidenti di Province e Regioni, ed il Capo del Governo. In pochi hanno afferrato la portata politica di questo pronunciamento popolare che ha stoppato la stagione del maggioritario e riaperto il confronto politico sull’assetto costituzionale, sulla divisione dei poteri e sul principio della sovranità popolare. Nel calderone della semplificazione istituzionale, riassetto degli Organi dello Stato e razionalizzazione dei costi, dopo il varo delle riforme costituzionali si intravedeva l’accorpamento delle regioni ed il superamento dell’autonomia del Molise, non a caso menzionato da Matteo Renzi quale esempio poco virtuoso in tutta la campagna referendaria. Niente di sorprendente in una simile prospettiva, se non fosse che ipotizzare la fuga dello Stato dai territori svantaggiati con la chiusura progressiva di Comunità Montane, Province e Regioni, non è di per sé una soluzione utile per le popolazioni delle aree interne e meno sviluppate del Mezzogiorno. Archiviato questo disegno di accentramento sponsorizzato dalla JP Morgan e dalla finanza internazionale, è indispensabile avviare una riflessione che riparta dai diritti essenziali di ogni cittadino, anteponendo il principio di uguaglianza di trattamento su tutto il territorio nazionale allo schema di divisione di funzioni amministrative tra Comuni, Province, Regioni e Stato. La questione cruciale, era e resta, la concreta fruibilità dei diritti sanciti nella Costituzione da parte di ogni cittadino italiano, al di là del luogo dove nasce, vive o lavora. Spetta allo Stato organizzarsi in modo tale che ciò avvenga con un’attenta e puntuale distribuzione delle funzioni tra Ministeri, Regioni e Autonomie Locali. Alla persona che abita in uno qualsiasi dei 136 Comuni del Molise, poco importa se il soddisfacimento dei propri bisogni viene assicurato più dallo Stato che dalla Regione o dalla Provincia. Il punto è se in quel territorio ci siano o meno, una scuola sicura, un ospedale pubblico efficiente, una viabilità dignitosa, una pubblica amministrazione di qualità o un sistemi di servizi di trasporto, protezione civile o di emergenza-urgenza capace di dare risposte efficaci e rapide in caso di necessità. Ebbene in un simile contesto l’Autonomia della Regione Molise, in assenza di alternative più credibili, era e resta, un punto fermo nell’azione di rappresentanza delle questioni che si pongono sul nostro territorio. Tornare indietro in un macro-territorio più vasto, dopo aver svuotato le Province e svilito le funzioni dei Comuni, determinerebbe l’accentuazione dell’isolamento e della perifericità del Molise con danni e penalizzazioni per la nostra popolazione. Per riprendere la tessitura di un nuovo progetto di sviluppo regionale serve rispettare ed attuare la Costituzione, affermare il ruolo del Consiglio Regionale, evitare l’ulteriore spoliazione delle Province, chiamare i Consigli Comunali a svolgere la propria attività in chiave collegiale, e sostituire sudditi, cortigiani e clienti, con cittadini liberi e responsabili.
Campobasso, 27 dicembre 2016
Michele Petraroia