LA SINISTRA GUARDI AI PENSIERI LUNGHI PER FORNIRE UN NUOVO PARADIGMA DEL MONDO.
Nel corso dell’assemblea nazionale di SINISTRADEM, il Presidente Gianni Cuperlo ha esposto nella relazione introduttiva, ribadendo nelle conclusioni, l’esigenza di rilanciare i principi, i valori e gli ideali politici dell’uguaglianza, della democrazia e della solidarietà, evitando di confondere i tatticismi di questa fase buia della storia italiana con i pensieri lunghi della buona politica di sinistra che fondano le proprie origini nell’illuminismo, nel Marxismo, nell’elaborazione culturale del cattolicesimo democratico e nelle lotte sociali del movimento operaio.
L’eredità politica di un percorso lungo dei soggetti più deboli organizzati nei partiti, nelle associazioni sindacali e nel mondo del volontariato, ha bisogno di riferimenti ideali forti incardinati sui principi scolpiti nella Carta Costituzionale.
SINISTRADEM intende riflettere sui limiti culturali di una stagione istituzionale convulsa e caotica, in cui i posizionamenti individuali sostituiscono il confronto aperto su temi essenziali come il futuro del lavoro e la tenuta del Welfare State.
E sul tema del lavoro è intervenuto per SINISTRADEM del Molise, Michele Petraroia, che ha preso le distanze da un impianto culturale che ha visto adottare il Jobs Act con troppa approssimazione.
La buona politica non potrà mai scambiare i fini con i mezzi, la strategia con la tattica e gli spot di corto respiro con i pensieri lunghi che vanno oltre le persone e oltre le generazioni.
Montenero di Bisaccia, 26 febbraio 2015
Nicola Palombo
Coordinatore Regionale SinistraDem
Assemblea Nazionale Partito Democratico
Grazie Sergio per quello che hai detto e per la tua amicizia.
E grazie a voi per essere venuti.
Sarà una giornata piena.
Parleremo di tutto ma non si poteva che partire da qui.
Da qualcosa che violenta l’idea della civiltà per come l’abbiamo conosciuta.
Forse lo ricordate.
A fine maggio del 2002 una barella venne portata via da quello che restava delle Torri Gemelle.
Era il funerale simbolico di 1.700 vittime mai ritrovate.
Polverizzate.
Perché anche la morte senza un corpo è una delle ferite dell’11 settembre.
E’ stato scritto che la cura dei morti distingue l’essere umano da tutto quello che umano non è.
Il punto è quanto ce ne rendiamo conto.
Io non so che memoria ne avete voi, ma il 10 agosto dell’anno scorso miliziani dell’Isis hanno massacrato 500 yazidi.
Gli yazidi sono una minoranza religiosa ai confini tra l’Iraq e la Siria.
Molte erano donne, e bambini.
Passano dei mesi.
E due settimane fa un pilota giordano viene chiuso in una gabbia e arso vivo.
Tipo Campo de’ Fiori.
Che cadde di febbraio anche quella volta.
Ma era il 1600.
Fino ai 21 copti con la gola tagliata in un copione che nel nostro pensiero non ha radici.
Il punto è che il corpo del nemico è come un documento – una traccia – per capire chi è il carnefice.
Per alcuni quel corpo non è più una preda.
Diventa un messaggio in sé.
E allora ecco la follia di un uomo vestito di arancione, ai piedi di un altro uomo vestito tutto di nero.
Il nemico in ginocchio, il giustiziere in piedi: e le immagini a celebrare il potere sulla vita di chi ha vinto.
Non è solo tecnica.
Macabra, ma una tecnica.
E’ tante cose.
E’ il modo di raccontare lo Stato totalitario che si vuole costruire.
Il punto è che vista così, la storia è davvero incredibile.
Pensate alla “Croce Rossa”.
E’ la formula che usiamo per chiedere aiuto, soccorso.
Non ti viene mai di pensare all’origine.
Che però non è banale.
Perché è dopo la battaglia di Solferino che matura quella svolta.
Vuol dire 24 giugno del 1859.
E succede quando una distesa sterminata di corpi impone delle regole per la cura dei feriti e la pietà verso le vittime.
La Croce Rossa nasce così.
Come reazione a un campo di guerra.
Anche per questo oggi era giusto partire da quello che sta succedendo.
Perché siamo davanti a qualcosa che travolge principi, tradizioni. A volte lunghe secoli.
E accade tutto qui, sotto gli occhi.
Basta un clic del mouse.
E paf! Ti trovi Solferino in salotto.
Ma questa volta senza la Croce Rossa.
Penso che in un quadro del genere il capo del governo ha fatto bene a chiedere buon senso e saggezza.
Se il messaggio era per alcuni ministri o parlamentari del nostro partito non si può che apprezzarlo.
E confidare in una maggiore cautela.
Perché la Libia è alle porte di casa, questo è un fatto.
Come è un fatto che sia una regione senza Stato.
Con due governi in conflitto.
Una zona occupata dal califfato.
E decine di tribù armate.
Chi le cose le sa spiega che intervenire sul terreno avrebbe rischi enormi e comunque chiederebbe decine di migliaia di uomini e mezzi.
Senza dire che qualunque azione dovrebbe coinvolgere i paesi arabi vicini.
Mentre solo l’idea che l’Italia possa guidare un’operazione del genere, con i nostri trascorsi, sarebbe come affidare ai francesi un peace keaping in Algeria.
Allora davvero ha ragione Renzi: saggezza.
Si lavori ancora sulla ripresa del dialogo tra le parti libiche e nella cornice dell’ONU.
E si riconosca che una parte almeno dei nuovi protagonisti sono il frutto di errori drammatici che l’Occidente ha compiuto nelle zone più esplosive della terra.
Ha detto Emma Bonino a un nostro seminario sabato scorso (a proposito Emma: un abbraccio grande, noi siamo con te), ha detto Emma, “noi, come gli americani, siamo capaci di abbattere i dittatori. Il problema è cosa si fa il giorno dopo”.
E ha ragione.
Pensate al 2003.
Paul Bremer, governatore americano in Iraq, comunica lo scioglimento del partito Baath.
Cioè la fine dello Stato iracheno.
Con tutte le sue storture. Ma con l’effetto di abbandonare 300.000 persone a un destino ignoto.
Ora, l’idea che da un abbaglio simile potesse sorgere una democrazia è solo testimonianza di un clamoroso ritardo culturale.
La verità è che dopo la fine della Guerra Fredda l’Europa, come l’America, non ha più avuto una visione del mondo.
A quel punto l’Onu ha perso parte del suo potere mentre la Nato si è allargata fino alle nazioni a ridosso della Russia.
Lo spirito imperiale di Putin ha reagito con la prova di forza sulla Crimea mentre tutta la retorica sugli Stati Uniti d’Europa ha lasciato campo a un primato dei governi nazionali.
Il risultato?
Che al tavolo di Minsk siedono Hollande e la Merkel.
Ma l’Europa non c’è.
E che sempre loro due vanno al Cremlino per dire a Putin che l’Ucraina non entrerà mai nella Nato.
Ecco più o meno dove siamo.
In uno dei passaggi più terribili della vicenda globale da quando ne abbiamo memoria diretta.
E di fronte alla più potente organizzazione terroristica nella storia dell’umanità.
Davanti a tutto questo noi che siamo parte della famiglia socialista dobbiamo capire quale responsabilità pesa sulla storia e l’avvenire della sinistra.
E dobbiamo farlo ripensando categorie e tabù che hanno scandito questi anni.
Vale per la pace e la guerra.
Che sono un pezzo della nostra agenda. Più di quanto pensiamo.
Ve lo racconto così.
Una settimana fa, in quella notte sbagliata passata a votare da soli la riforma della Costituzione, alcuni tra noi (e fatemi ringraziare qui Carlo Galli, Rosy Bindi, Barbara Pollastrini), si sono alzati in Aula alla Camera e hanno posto il tema di una maggioranza qualificata del Parlamento per la dichiarazione dello stato di guerra.
Non vi rubo del tempo, ma la questione è semplice.
Se tu voti con un sistema maggioritario e prevedi che la dichiarazione di guerra venga assunta da una maggioranza assoluta, di fatto consegni le chiavi di quella dichiarazione nelle mani della forza che vince le elezioni.
Noi ci siamo battuti per impedirlo.
Ripeto: ci siamo battuti.
Su questo come su altri temi nel corso di questi mesi.
E allora – vedete – anche se siamo partiti dal mondo le poche altre cose che io vorrei raccontarvi questa mattina prima di ascoltare voi (che oggi è la cosa più importante) sono queste.
Vorrei provare a dirvi come siamo arrivati qui e qual è la posizione che io credo giusto tenere nei prossimi mesi.
E vorrei farvi delle proposte sul cammino che dobbiamo proseguire, dal punto di vista politico e organizzativo.
Per una volta anche organizzativo, perché io so cosa pensate delle mie capacità operative ma ho fatto un corso intensivo di organizzazione col CEPU.
Mi sono diplomato, quindi non è per caso che oggi noi siamo attrezzati con moduli, adesioni, un sito, un coordinamento sulla comunicazione.
E a parte gli scherzi, grazie a SinistraDem di Milano e della Lombardia per il lavoro che hanno fatto.
Allora, alle spalle abbiamo i mesi difficili che sapete.
Credo si possa dire che li abbiamo vissuti in uno spirito di lealtà e a schiena diritta.
Guardate sappiamo tutti – io per primo – quanto pesi l’immagine di una minoranza fatta di pezzi e tronconi.
E so che spesso sui vostri territori questa divisione non è compresa.
Ma vedete, dopo il congresso – oramai sono passati 15 mesi – noi ci siamo trovati a cominciare daccapo.
Me lo fate dire col cuore?
Per tante ragioni – e anche a causa di errori nostri, miei – ci siamo risvegliati senza potere, ruoli.
Senza risorse.
Ma a quel punto – passo passo, mese dopo mese – abbiamo scommesso sulla forza dei principi e sulla passione.
Avendo attorno un panorama non sempre felice.
Fatto di una certa omologazione nel dire, nel pensare.
E poi di qualche trasformismo nella logica di un potere che attira, ingloba.
Non è stato semplice, e sapete voi la fatica che avete fatto per tenere in piedi una rete anche quando la spinta all’abbandono si è fatta più incalzante.
Eppure non è solo che abbiamo resistito.
Siamo ripartiti con un progetto.
Che era rendere viva una sinistra dentro il Partito Democratico.
E farlo in un campo aperto perché non abbiamo mai pensato di bastare a noi stessi.
Lo abbiamo fatto.
Con decine di assemblee e oggi siamo nati in 16 regioni.
Con incontri in tante città – io ne ho vissuti parecchi – che hanno visto i posti occupati e parecchi rimanere in piedi.
A conferma che una domanda c’era.
Lo abbiamo fatto nei momenti più intensi del confronto politico e parlamentare.
E mano mano, eravamo un po’ meno soli.
Sul Jobs Act 29 deputati del PD hanno firmato un documento che spiegava la scelta di non votare quella delega.
Vi assicuro che nessuno di loro ha deciso a cuor leggero.
E io rispetto, ieri come oggi, la posizione di chi ha scelto la strada di una mediazione che a mio avviso era e rimane insufficiente.
Ma vedete, di fronte alla decisione del governo di ignorare completamente i pareri delle commissioni parlamentari, confermando le norme sui licenziamenti collettivi o il demansionamento, io apro i giornali questa mattina e trovo la conferma delle nostre ragioni.
Così come penso che la battaglia contro un eccesso di delega dovrà proseguire.
Perché non pretendo di avere la verità.
Ma non credo che quella di ieri sia stata una giornata storica e attesa da anni.
O forse sì, per chi da anni voleva cancellare l’articolo 18, ma non se guardi le cose con gli occhi di quei lavoratori che hanno perso qualcosa della loro storia e dignità.
Il punto è che solo scegliendo sul merito delle cose una posizione ferma noi possiamo allargare il consenso anche del nostro partito.
Ho citato la delega lavoro.
Ma la stessa coerenza ha guidato il voto di 27 senatori sulla legge elettorale.
E segnerà l’atteggiamento che saremo chiamati a tenere tra alcune settimane nel voto sulla riforma costituzionale.
Su questo sapete tutto.
Ma lo ripeto qui: cambiare 40 articoli della Costituzione con 300 voti nel cuore della notte, mentre le opposizioni, tutte, sono fuori dall’Aula, non è una medaglia che ti appunti al petto.
Non è la vittoria delle riforme dopo 20 anni di inerzia.
È la sconfitta di una democrazia parlamentare matura.
Noi avremmo voluto che il Parlamento quella riforma fosse messo nella condizione di migliorarla.
E per questo in commissione abbiamo cambiato l’articolo 2: quello decisivo sulla composizione del Senato.
Perché, pure rispettando l’impianto della riforma, non abbiamo pensato mai che la Costituzione si potesse appaltare a un accordo blindato fuori dal Parlamento.
Lo ripeto da qui: togliamo di mezzo la propaganda su chi vorrebbe impedire le riforme.
Se qualcuno vuole questo non siamo noi.
Non siamo noi.
Ma quando il sindaco di Torino lancia l’allarme sul collasso delle più grandi amministrazioni locali di questo Paese, ce lo vogliamo porre il tema di dove stiamo andando?
Posso dirvelo con sincerità?
Io considero la battaglia sui capolista bloccati giusta per le ragioni che sapete.
Ma credo sia persino superiore il danno che rischiamo se dovessimo mandare a ramengo il tessuto politico e finanziario che vive nel sistema delle nostre autonomie.
Per tutte queste ragioni nei passaggi decisivi di questi mesi, noi ci siamo stati.
Quando in gioco erano i diritti di chi lavora.
E la qualità della rappresentanza.
O la coerenza di un assetto nuovo della Costituzione.
Avremo fatto anche degli errori ma non abbiamo mai girato la testa dall’altra parte.
E abbiamo cercato di pensare.
Radici, pensiero, futuro, è stampato sulla carta di adesione a SinistraDem.
E ha un senso che sia così.
In un equilibrio – che per definizione è difficile – tra le idee e la cura verso ciò che è concreto.
Il punto è che se togli il pensiero alla realtà precipiti nelle vecchie certezze.
Ma se rubi alle idee la forza della vita non hai più la terra sotto i piedi.
Io credo di averlo capito quando ho sentito qualcuno dire che la passione per i libri è l’utopia di chi non si compiace di una vita ma ha bisogno di conoscere quella degli altri.
In questo gli scrittori, le vite che non sono le loro, hanno persino l’utopia di crearle.
E’ una bella riflessione.
Ti porta a pensare che di più ambizioso c’è solo la politica perché degli altri vuole condividere oltre all’esistenza il riscatto.
E in fondo questa è l’utopia che da senso alla storia.
E’ il mondo a dircelo.
Fosse solo perché la crisi ha cambiato modi di pensare e persino il modo di sperare.
Ci ha detto una cosa soprattutto: che senza un vero “capitale umano” – senza norme morali – una società può franare.
Io penso che anche per questo attorno a noi è cresciuto il valore di quei beni che non si vedono e non si vendono.
Avete presente la fiducia? Ecco, che prezzo dai alla fiducia verso l’altro?
Una risposta è che ridurre l’individuo alla sua busta paga, quando c’è, è come giudicare qualcuno dal codice fiscale.
Cifre, lettere, al posto di sentimenti, giorni vissuti.
Oggi però quell’idea di società pare al capolinea.
E i segnali ci sono.
Non ne parliamo mai o quasi.
Ma nei paesi dell’Occidente una parte importante delle persone dona del denaro.
E una quota che è quasi la metà dona una parte del suo tempo.
Ora, avete presente quella cosa che abbiamo amato tanto dei “pensieri lunghi”?
Circa quarant’anni fa Amartya Sen criticava i suoi colleghi che riducevano la vita alla sola economia perché – diceva lui – negavano due dimensioni della natura umana: la passione per l’altro e il dovere morale.
Che in parte è ciò che questa crisi costringe a resuscitare.
Come se oggi, al settimo anno della crisi, quella profezia avesse scavato le coscienze.
E il mondo – o almeno l’Occidente – non è più lo stesso.
Anche per questo ci sono riforme che si possono fare.
Che si devono fare.
La prima è quella dei mercati finanziari.
Cacciare dall’economia la speculazione, ecco questa è una cosa di sinistra.
Premiare le aziende che tutelano ambiente e lavoro è un modo per costruire un’economia al servizio della persona.
Quindi la sfida è anche in un’altra cultura della domanda.
Con un’economia che riscopre il suo fondamento etico.
E’ un’ambizione alta.
Leonardo Becchetti dice che noi siamo come un palazzo di tre piani.
L’Italia è il piano terra.
L’Europa il secondo.
La grande finanza il terzo.
Il punto – spiega lui – è che ad allagarsi è stato il piano più alto.
E l’acqua, scendendo, ha danneggiato gli inquilini sotto.
Ora, se usi la logica è dal terzo piano che bisogna partire se vuoi che l’acqua smetta di allagarti.
Regolamentare la finanza, cambiare la cultura del consumo è un modo per riparare il guasto.
E non è fantascienza.
Perché quando una crisi travolge la vita di milioni di persone cambia anche il loro modo di pensare.
Di organizzarsi.
La verità è che gli inquilini del terzo piano invece di saldare i danni, hanno preteso il pagamento delle riparazioni.
Poi ci sono stati quelli del secondo piano.
Diciamo gli architetti della moneta unica.
Anche loro si sono trovati coi piedi bagnati.
Ma l’idea che ci fosse qualcosa di guasto nell’impianto, non li ha scalfiti.
Al massimo, a quelli del pianterreno, hanno concesso un po’ di tempo per rimettere le cose in ordine.
Cioè tradotto: di fronte allo schiaffo della crisi hanno preferito abbassare i livelli della solidarietà.
Vedete, la Grecia – ma non solo – racconta esattamente questa storia.
Con la politica del rigore a quadrare il cerchio.
E l’effetto lo sapete.
Crisi della domanda, nazionalismi, le avarizie di cui non è facile vedere l’uscita.
Ma allora il tema non è il braccio di ferro tra Atene e la Cancelliera.
Perché poi l’Eurogruppo di ieri poteva sembrare quella pubblicità, “Ti piace vincere facile?”
In fondo attorno al tavolo erano 18 contro 1.
Ma al di là dei 4 mesi di proroga concessi, per la prima volta Atene ha fatto discutere sui limiti di fondo dell’austerità.
E non era scontato.
Il nodo è se dentro un’Europa piegata dalla paura la sinistra ha il coraggio di riscoprire la sovranità della politica.
Anche perché l’alternativa è il collasso della moneta.
Per questo servono regole contro la speculazione, per il rilancio dei consumi.
Serve lo scorporo degli investimenti dal deficit e una discussione seria sul congelamento del debito.
Insomma se l’Europa vuole salvare la sua anima per prima cosa deve mettere in cima a tutto la vita delle persone.
E un reddito minimo di cittadinanza sarebbe un’iniziativa giusta in questa direzione.
Soprattutto in un Paese come il nostro con 3 milioni e 750mila lavoratori che vivono sulla soglia di povertà.
Persone come Martina che la sua storia l’ha raccontata a Repubblica.
32 anni, laureata in economia, vive a Milano, guadagna 800 euro e divide una stanza in affitto con un collega.
Allora tocca a noi – anche a noi – pensare le campagne che diano senso al legame tra il pensiero e l’azione.
Vi ho detto che abbiamo affrontato le emergenze.
Ma noi non siamo nati per inseguire l’agenda degli altri.
La sinistra ha vinto quando ha saputo dettare la sua agenda.
E io penso che adesso sia il momento.
Anche perché – credetemi – è la chiarezza delle posizioni che scioglie i nodi e dice chi sei.
Ve lo dico così: che senso ha dividersi sulla domanda “come si può correggere da sinistra le politiche che si fanno”?
Per noi la vera domanda è un’altra.
Quanto è necessaria e possibile un’alternativa radicale alla cultura politica che abbiamo davanti?
Questo è il tema per la sinistra, dentro e fuori il Partito Democratico.
E il punto non è fare un congresso permanente.
Il congresso è finito.
Ma fare chiarezza su questo nodo di fondo perché da qui discende la nostra iniziativa quotidiana.
E allora se siamo sinceri dobbiamo dirci che costruire quell’alternativa vuol dire prima di tutto essere alternativi a noi stesi per come siamo stati prima di Renzi.
Vuol dire coprire l’enorme spazio che c’è rispetto a una domanda di sinistra fuori da qui.
Ce lo racconta la Grecia, ma in modo diverso anche l’astensione senza eguali in Emilia-Romagna.
Quel vuoto va colmato e noi siamo tra quelli che questa alternativa la vogliono costruire.
Ci mettiamo a disposizione di questo progetto sapendo che da soli non bastiamo.
E sapendo che questo nostro partito, che sarà pure scalabile, oggi non è in grado di includere donne e uomini che alla politica non chiedono posti ma principi e traguardi.
Questo per noi vuol dire rimetterci in gioco, andare a cercare e ricostruire legami sociali che si sono spezzati.
Farsi carico del dramma di tanti e tornare nei luoghi dove accadono le cose.
Dove c’è chi il presente lo subisce ma non rinuncia a pensare un’altra possibilità.
Se tu immagini che tutto questo si possa risolvere dentro le mura del Parlamento o delle istituzioni non hai capito la natura di questa crisi.
Quest’opera, in buona misura, vive fuori da lì.
È una sfida culturale.
Vive di battaglie sociali e politiche.
La verità è che non c’è cambiamento – semplicemente non c’è – se non torna al centro il capitolo dell’uguaglianza.
Con una redistribuzione del potere a chi è rimasto senza nulla.
Ma se è così, non si può dire che la battaglia da fare è sempre la prossima.
E però neppure si può vivere ogni battaglia come fosse l’ultima.
Trovare il giusto equilibrio è difficile?
Sì molto.
E non si possono escludere punti di dissenso anche radicale, ma quei punti vanno fissati lì dove incrociano i bisogni e la dignità delle persone.
Ve l’ho detto: ci batteremo ancora per cambiare questa legge elettorale.
Se davvero il patto del Nazareno non c’è più, nulla impedisce di aumentare il numero dei collegi uninominali (sarebbe anche un omaggio al presidente Mattarella), e di consentire l’apparentamento al ballottaggio anche per evitare un premio in seggi spropositato.
Lo faremo, e andremo fino in fondo.
Ma ricordate quando dicevamo che la sinistra non può limitarsi a correggere la punteggiatura della destra?
Ecco, noi non possiamo neppure limitarci a guardare quello che c’è o che non c’è nell’agenda del governo.
Questa nostra cosa ha un senso se riscopre la battaglia nella società.
Per un’altra economia. Una diversa dignità della persona.
E allora ha senso dire le priorità.
Ve ne cito tre.
La prima sono i diritti come premessa di cittadinanza.
Io trovo quasi insopportabile il ritardo di una sinistra che subordina i diritti civili e della persona al recupero di una competitività dell’economia.
Come se le due sfere non avessero un legame profondo.
Noi siamo quella sinistra.
Che mette in cima diritti umani, civili, sociali, a cominciare da quelli delle donne.
Siamo la sinistra che in una barriera architettonica non vede un vizio dell’urbanistica ma un ostacolo della democrazia.
Unioni civili, la gioia di un figlio fuori da regole assurde, la dignità del vivere e dell’andarsene: portiamo queste leggi nel Parlamento ma facciamole vivere dal basso.
Costruiamo iniziative, campagne, diamo forza a quell’idea di comunità.
La seconda priorità è un contrasto culturale alla povertà.
Oggi in Italia ci sono 1 milione e 400.000 minori in una condizione di povertà assoluta.
Per buona parte sono ancora fuori dall’agenda del governo.
Nel complesso i poveri erano 2 milioni e mezzo sette anni fa, ora sono più di 6 milioni.
Noi diciamo che serve una strategia per combattere vecchie e nuove miserie che la crisi ha generato.
Non bastano più provvedimenti tampone o social card.
Siamo i soli con la Grecia a non avere una misura universale contro la povertà.
In questo caso l’obiettivo è chiaro: ogni famiglia che si trovi in quella condizione deve ricevere un contributo economico sufficiente a farla uscire dal disagio.
In un quadro di servizi sociali, educativi, per l’impiego.
Il punto è che la nostra spesa pubblica contro l’esclusione sociale è inferiore dell’80% rispetto alla media europea.
Fa benissimo il capo del governo a esaltare le eccellenze italiane.
Il punto è che faccio fatica a capire come si possa confondere la bellezza dell’uguaglianza con un egualitarismo che appiattisce gli individui.
Sono due cose diverse.
Uno è un principio che fonda la qualità della democrazia.
L’altro è una degenerazione che della democrazia sega le radici.
Allora rilanciamo noi da qui un Piano nazionale contro la povertà.
In quattro anni bisogna introdurre a regime una misura nazionale indirizzata a tutte le famiglie valorizzando gli interventi contro il disagio che già oggi esistono grazie al Terzo Settore e all’impegno degli enti locali.
La terza priorità è il mondo come la sola dimensione di un discorso sulla civiltà.
Ripartiamo dalle due leggi di iniziativa popolare sulla cittadinanza per i ragazzi stranieri nati o cresciuti in Italia e per il voto amministrativo a chi è residente da almeno 5 anni.
E non abbassiamo lo sguardo su Mare Nostrum e sul bisogno di salvare migliaia di vite che la primavera metterà di nuovo a rischio.
Ecco dove siamo e cosa siamo.
Non più una testimonianza.
Non ancora il campo largo di un sinistra che vince.
Anche se è lì – io ne sono convinto – che dobbiamo arrivare.
Allora come procedere?
Camminando sulle due gambe che abbiamo.
Una è quella dell’associazione che sta crescendo.
A Bologna, a fine estate, ci eravamo dati un impegno e lo abbiamo rispettato.
SinistraDem esiste con i suoi comitati e i coordinamenti in molte regioni e città.
Ma non basta.
Adesso quella struttura deve maturare.
Oggi abbiamo una carta di adesione, un modulo, una forma organizzata per dare senso a un progetto che dopo un anno è in grado di stare in piedi.
Sapete meglio di me quale sia lo stato reale del tesseramento al partito.
Vi sono circoli aperti che funzionano.
Molti altri hanno chiuso perché mancano risorse e volontà.
Qui oggi abbiamo voluto un’assemblea dei territori perché sappiamo che solo da lì si ricostruisce una trama organizzata.
Poi è giusto tenere le nostre assemblee, i seminari.
Ma è dalla base dei circoli, da quella rete diffusa che può rinascere un’identità.
Vorrei dirvi che useremo il sito in una modalità diversa.
Farà circolare contenuti, materiali.
Ma cercheremo di farlo diventare sempre di più una raccolta di progetti che partiranno dalla dimensione locale.
E, insieme, uno strumento di formazione, di conoscenza.
Ad aprile partirà l’esperimento di una Web-Tv
Saranno due appuntamenti settimanali in un formato pensato come scambio tra l’approfondimento degli esperti e il sapere della rete.
Per capirci, sulla Grecia o sulla Libia, come sui decreti del jobs act o sulla buona scuola, l’offerta del sito darà a chi lo volesse una cassetta degli attrezzi da tradurre in appuntamenti, mobilitazione.
O anche solo nella possibilità di farsi referente di ambienti più larghi del nostro.
E poi c’è la seconda gamba, quella che abbiamo curato in questi mesi.
Scegliendo di non chiuderci.
Di andare a discutere con altri pezzi di una sinistra più larga.
O chiamandoli, volta per volta, a misurarsi con noi.
Preti di strada come Don Massimo. O Carlin Petrini, Gad o Elena Cattaneo.
La presidenza dell’Arci e di associazioni e movimenti.
I vertici di Banca Etica e il sindacato.
E poi a Livorno con Vendola e Civati. E a Milano con Pisapia.
Qui oggi c’è il ministro della giustizia e io ringrazio Andrea non solo per essere venuto ma per il lavoro che fa.
E ringrazio Alfredo D’Attorre che parlerà, e con lui Stefano e tanti altri con i quali in questi mesi abbiamo saputo ricucire un legame che oggi rende tutti più forti.
Sento che abbiamo bisogno, nella chiarezza di una linea e con la più grande sincerità tra noi, di allargare davvero quel campo di cui abbiamo parlato.
E lo possiamo fare.
Arrivando presto a quell’appuntamento che avevano immaginato come sbocco dell’associazione parlandone già a Bologna, all’inizio di ottobre.
Se siete d’accordo, fissiamolo quell’appuntamento.
Tre giorni che pensiamo come la prima festa-evento di SinistraDem, subito dopo le regionali.
Vorrei che lo costruissimo assieme, come uno spazio di verifica del percorso, di formazione e comunicazione di quel che siamo.
Ma in questi mesi il campo lo abbiamo esteso e altri e altre ci chiedono di tornare ad ascoltarci e camminare assieme.
Come è accaduto sulla legge di Stabilità e in altri momenti che ho ricordato.
Per essere di più.
E perché – voi lo sapete meglio di me – dividersi non è mai stata la strada che ha reso la sinistra più solida.
Anzi, nella storia è accaduto sempre l’opposto.
Lo ripeto: dopo il congresso tutto si può dire di noi meno che non siamo stati generosi.
Forse ai limiti dell’ingenuità.
Ma ancora una volta io sono per raccogliere quell’invito e proseguire sul sentiero largo.
E quindi penso che in una data scelta con gli altri, nelle prossime settimane, noi possiamo tenere un incontro aperto a chi crede in una grande sinistra dentro il Partito Democratico.
Una nuova tappa.
Noi siamo pronti a portarci quello che siamo.
Sapendo che non abbiamo scherzato.
Che questo nostro percorso continuerà perché vogliamo vederlo crescere.
Ma vogliamo anche incrociare il tanto di buono che vive in una sinistra fuori e dentro il PD.
È primavera, anche a sinistra, si potrebbe dire.
Penso a un’occasione aperta a chi vorrà esserci, ma sulla base di quella chiarezza di principi che in un tempo complicato abbiamo difeso persino in modo testardo.
Ecco le due gambe.
L’associazione, con il suo profilo e le differenze che ha in regioni e territori diversi.
E un campo più largo dove si rinnovano le ragioni della sinistra che vuole cambiare verso dalla parte giusta.
Se posso dire così, mai come adesso servono orgoglio e voglia di contare, anche nei luoghi dove si decide.
Ma soprattutto, mai come adesso, serve la passione per le persone, da conquistare una ad una.
Perché vedete, colpisce che ad Atene o Madrid vincano partiti e formazioni sorte da pochi mesi.
Così come impressiona il collasso di partiti della famiglia socialista con una lunga tradizione alle spalle.
Ma se succede è anche perché quelle nuove forze hanno costruito il consenso attorno a una radice di solidarietà.
A una politica che si fa storia in atto, direbbe un mio maestro.
Magari quelli non fanno le primarie.
Però portano umanità, ascolto, servizi, dove lo Stato si è ritirato. Impotente.
Abbiamo davanti un campo sterminato da coltivare.
Ma bisogna avere il piglio per farlo. Compresi gli attrezzi.
E bisogna farlo mentre tante cose stanno cambiando.
Per tutti.
Questa è l’ultima cosa che voglio dirvi.
Renzi ha costruito il suo successo sull’onda della rottamazione di chi c’era prima.
Io non ho mai amato quel termine.
E non mi piace adesso.
Ma riconosco che lui aveva colto una domanda matura.
Poi l’ha interpretata a modo suo, lasciando a noi il ruolo di custodi del passato.
Ecco, mi piace pensare che oggi il compito è cambiato per entrambi.
Per lui e per noi.
Lui è alla guida del Paese e del PD.
Non deve rottamare più nulla, se non le ricette che non funzionano più.
Ma su quel versante lo vedo un po’ meno innovatore.
Se posso dirlo così, io non me ne intendo, ma non dubito che la Maserati Levante sarà una gran bella vettura.
Ed è importante che dalle catene di Mirafiori escano finalmente nuovi modelli.
Però – che devo dirvi – io non credo che riuscirei a dire “sono gasatissimo dai progetti di Marchionne”.
O chissà, lo direi anche.
Magari il giorno che portasse in Italia la sua residenza fiscale.
O dicesse che, forse, i diritti del sindacato dentro la fabbrica sono parte integrante della civiltà del lavoro.
Comunque sia, la sfida di Renzi adesso non è cancellare la classe dirigente di prima, ma costruirne una nuova che nella sua maturità – e lo dico con grande rispetto – ancora non si vede.
Decida lui se farlo avendo fiducia nel suo partito prima di tutto, come è avvenuto nei giorni belli dell’elezione di Mattarella.
Oppure se pensa di dividere il suo campo attraverso posizioni e scelte in conflitto con le ragioni stesse della sinistra e della sua cultura.
Se sceglierà la prima strada, come io spero, ci incontrerà e ci riconoscerà.
Se sceglierà la seconda ci incontrerà comunque e ci riconoscerà lo stesso.
Ma il compito è cambiato anche per noi.
Che non abbiamo da difendere un mondo che non c’è più.
Mentre abbiamo da costruire la realtà che non c’è ancora.
Senza presunzione di capire tutto.
Ma con la curiosità forsennata di vivere questo tempo in coerenza con i valori che ci portano qui.
Guardate che si può fare. Che poi era lo slogan vincente del primo mandato di Obama.
Tutto sommato io vi proporrei quello piuttosto che “state sereni”.
Cari amici, cari compagni, noi ci siamo.
Questo contava poterci dire oggi.
E ci saremo.
Per mille motivi, ve lo assicuro.
Noi ci saremo.