Il seminario del 12 dicembre sulla sensazionale scoperta storica di due Abati del Molise che nel 1331-1360 sancivano, nello Statuto del Comune di San Bartolomeo in Galdo, all’art. 69 la nozione di GIUSTA CAUSA per poter licenziare un lavoratore, ha offerto l’opportunità di riflettere sul ruolo avuto dal pensiero cristiano nella costruzione culturale di una società libera e democratica.
I contributi scritti del Presidente della Regione e dell’On. Gianni Cuperlo si sono aggiunti agli interventi dei docenti dell’Università del Molise e dell’Università di Bologna, dell’Arcivescovo di Campobasso – Bojano, dei segretari generali di CGIL e CISL, dell’associazione di San Giovanni Eremita da Tufara, dell’associazione dei giovani laureati europei in giurisprudenza e del Sindaco di San Bartolomeo in Galdo intervenuto con il gonfalone e con la fascia insieme ai Sindaci di Ferrazzano e di Cercemaggiore, i paesi molisani di origine dei due Abati.
In un periodo buio per i diritti dei lavoratori in cui dominano le tesi liberiste che ipotizzano una gerarchia sociale in cui il capitale prevale sul lavoro, il seminario di Campobasso, partendo dagli obiettivi di equità, solidarietà, coesione e giustizia sociale degli Abati del Molise del 1300, ne ha voluto sottolineare l’attualità ed il valore, a partire dal confronto sul Jobs Act e sui licenziamenti discriminatori privi di giusta causa.
Lo scontro culturale aperto nelle società industrializzate più avanzate è tra la conciliazione dei diritti sociali, della libertà e della democrazia, e le tesi che mirano a rincorrere i paesi emergenti sul terreno dell’eliminazione delle tutele politiche e sociali.
Non sarà una manifestazione in una piccola città dell’Italia Meridionale a mutare i rapporti di forza nel confronto europeo e nazionale sulle Misure economiche da prendere a Berlino, Bruxelles e Roma per far ripartire la crescita e l’occupazione, ma è stato positivo testimoniare che nella cultura cristiana del 1300, in un luogo sconosciuto del Sud più nascosto, veniva sancito un principio di equità e parità di dignità sul cui valore si deve riflettere prima di tornare all’oscurantismo della legge del più forte come cardine giuridico sostanziale delle società del XXI° secolo.
Campobasso, 13 dicembre 2014
Michele Petraroia
Saluto On. Gianni Cuperlo
Quando Michele Petraroia, che ringrazio, mi ha parlato di questa sorprendente scoperta contenuta in uno Statuto della prima metà del 1300 che trovava parole che pensavamo frutto della nostra contemporaneità, “giusta causa”, per dire la cura e la tutela dei lavoratori più deboli, ho subito pensato che non ci fosse modo più bello di ribadire il valore etico, prima ancora che politico, racchiuso nell’Art. 18 dello Statuto dei lavoratori che legarne il senso profondo non già alle particolari condizioni sociali ed economiche della stagione storica che quella norma ha prodotto, bensì ha qualcosa di più universale e duraturo, che attiene all’idea stessa della dignità umana e del lavoro. Qualcosa capace di attraversare i secoli, le frontiere e i cicli economici perché ancorato al nocciolo indissolubile della libertà ed emancipazione dell’uomo.
Per questo sono particolarmente dispiaciuto che i lavori parlamentari – nello specifico l’esame della riforma costituzionale in I Commissione alla Camera – mi impediscano di partecipare al seminario, perché, ne sono certo, la vostra discussione sarà una parte importante di ciò che più è mancato al dibattito pubblico di queste settimane e di questi mesi sulla riforma del mercato del lavoro.
Troppo spesso il valore simbolico e profondamente politico del lavoro è stato banalizzato, quando non negato.
Eppure, poco meno di settanta anni fa, i padri costituenti furono concordi nel porre il Lavoro a fondamento di una Repubblica da inventare e una Nazione da ricostruire dopo le macerie morali e materiali della più grande tragedia del Novecento.
Non fu per caso.
Come si può immaginare di ‘depurare’ il lavoro dal suo elemento fondante, che è tutto, interamente politico?
E come si può pensare di ‘depurare’ la democrazia dal conflitto?
Chi crede di potere far questo espone la democrazia e la convivenza civile a rischi seri. Come ho detto più volte, legiferare in materia di lavoro non è mai un’operazione neutra. È mettere le mani nella carne viva della società, nella vita concreta di milioni di donne e uomini, di intere generazioni.
Per tutto questo l’ascolto, la condivisione, il rispetto delle voci diverse e delle piazze affollate e pacifiche è un dovere. Sempre.
Il Lavoro è il campo politico per eccellenza. E’ il conflitto politico per eccellenza. Non solo e non tanto perché nel lavoro e sul lavoro si confrontano soggetti mossi da interessi diversi e spesso divergenti, ma soprattutto perché questo confronto è destinato ad essere sempre asimmetrico, perché le parti in campo non hanno avuto mai né avranno pari potere e forza.
Alla politica sta, oggi come ieri, riconoscere il conflitto, accettare la sfida di governarlo e finalmente prendere parte. Se poi la politica si pensa e si racconta come di sinistra, quella parte non può che essere la più svantaggiata, la più debole.
Negare il conflitto o tentare la via di una presunta neutralità si tradurrà inevitabilmente in un vantaggio per la parte più forte. Dobbiamo saperlo.
Questi sono alcuni dei convincimenti che ci hanno guidati nel tentativo di migliorare il Jobs Act. Perché molto, moltissimo è da cambiare, ma non al costo di monetizzare il valore di una vita umana.
Quel vecchio codice ci conferma che siamo nel giusto. Non si tratta certo qui di tentare improbabili confronti tra epoche, società e culture incommensurabili. Ma di cogliere in quelle parole così perfettamente simili alle nostre un monito a non retrocedere di un passo sulla strada che ha saputo trasformare, spesso a caro prezzo, luminose intuizioni morali, religiose e filosofiche in diritti.
E da qui, dai diritti, da ciò che sottrae la persona, la sua vita e il suo destino alla mercé altrui per restituirla alla propria libertà, conviene ripartire sempre.
Buon lavoro
Gianni Cuperlo
Il licenziamento di “Giusta causa” tra storia e attualità.Riflessioni sull’atto fondativo del comune di san Bartolomeo in Galdo (1331-1360)
Campobasso. Il licenziamento di “Giusta causa” tra storia e attualità è il tema del convegno organizzato dall’assessorato regionale al lavoro e delle politiche sociali guidato dall’Assessore Michele Petraroia che ha curato la ricerca sull’atto fondativo del Comune di San Bartolomeo in Galdo del 1331- 1360 anticipando di 600 anni lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Il convegno di studio sul ruolo di due abati del Molise, Nicola da Ferrazzano e Nicola da Cerce e dell’Abbazia di Santa Maria del Gualdo fondata da San Giovanni Eremita da Tufara (CB) che hanno elaborato l’art.69 di tale Statuto, si svolge oggi, venerdì 12 dicembre 2014 alla ore 14,30 presso la Sala del Parlamentino della Presidenza della Giunta regionale del Molise, in via Genova a Campobasso. Dopo i saluti delle autorità seguiranno gli interventi di importanti relatori, docenti in materia di diritto del lavoro e storia del diritto italiano e rappresentanze sindacali del Molise. Per la Commissione per il Lavoro, Giustizia e Pace della CEI interverrà il Presidente S.E. mons. Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso – Bojano che, alla luce di quanto sta accadendo in Italia e sulle recenti riforme in materia, tratterà la tematica del Lavoro e del precariato sul piano etico sottolineando l’importante ruolo che hanno avuto i due religiosi molisani antesignani dello statuto dei diritti dei lavoratori. La ricerca sul ruolo dei due abati è stata svolta presso la biblioteca vaticana attraverso il Codice Vaticano Latino scritto dall’amanuense Eustasio tra il 1203 e il 1215. Il rilievo culturale, storico e sociale di tale ricerca deriva dalla scelta di inserire nello Statuto di allora, norme a tutela delle “donne, dei fanciulli, del lavoro e dei più deboli”. Nello specifico, l’art. 69 di tale Statuto disciplina la “Giusta Causa” come motivo fondato per licenziare un lavoratore. L’attualità di tale normativa a difesa del “lavoratore” riguarda l’attenzione e la promozione della persona nella sua dignità di lavoratore e promotore di valori di Pace come di recente ha evidenziato il Santo Padre papa Francesco nel messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2015. Un appello Universale alla società civile: “malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù.
Penso a tanti lavoratori e lavoratrici, anche minori, asserviti nei diversi settori, a livello formale e informale, dal lavoro domestico a quello agricolo, da quello nell’industria manifatturiera a quello minerario, tanto nei Paesi in cui la legislazione del lavoro non è conforme alle norme e agli standard minimi internazionali, quanto, sia pure illegalmente, in quelli la cui legislazione tutela il lavoratore.
Penso anche alle condizioni di vita di molti migranti che, nel loro drammatico tragitto, soffrono la fame, vengono privati della libertà, spogliati dei loro beni o abusati fisicamente e sessualmente. Penso a quelli tra di loro che, giunti a destinazione dopo un viaggio durissimo e dominato dalla paura e dall’insicurezza, sono detenuti in condizioni a volte disumane. Penso a quelli tra loro che le diverse circostanze sociali, politiche ed economiche spingono alla clandestinità, e a quelli che, per rimanere nella legalità, accettano di vivere e lavorare in condizioni indegne, specie quando le legislazioni nazionali creano o consentono una dipendenza strutturale del lavoratore migrante rispetto al datore di lavoro, ad esempio condizionando la legalità del soggiorno al contratto di lavoro… Sì, penso al “lavoro schiavo”.
(…)lancio un pressante appello a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, e a tutti coloro che, da vicino o da lontano, anche ai più alti livelli delle istituzioni, sono testimoni della piaga della schiavitù contemporanea, di non rendersi complici di questo male, di non voltare lo sguardo di fronte alle sofferenze dei loro fratelli e sorelle in umanità, privati della libertà e della dignità, ma di avere il coraggio di toccare la carne sofferente di Cristo12, che si rende visibile attraverso i volti innumerevoli di coloro che Egli stesso chiama «questi miei fratelli più piccoli» (Mt 25,40.45).
Sappiamo che Dio chiederà a ciascuno di noi: “Che cosa hai fatto del tuo fratello?” (cfr Gen 4,9-10). La globalizzazione dell’indifferenza, che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità, che possa ridare loro la speranza e far loro riprendere con coraggio il cammino attraverso i problemi del nostro tempo e le prospettive nuove che esso porta con sé e che Dio pone nelle nostre mani”
L’Addetto Stampa
Contributo Presidente Frattura
art. 18 il tempo 12.12.2014